6 mesi fa (era il 24 febbraio) aveva inizio “l’operazione militare speciale”: così Putin ha definito (e continua a definire) l’invasione dell’Ucraina.
Certamente le aspettative erano diverse: come più volte si è detto, il leader russo pensava ad una guerra lampo, con il Paese conquistato, se non in uno fine settimana, in pochi giorni. Si ritrova, invece, dopo 180 giorni, ad aver conquistato poco più del 13% del territorio ucraino, in pratica il Donbass e la Crimea, di fatto già in precedenza controllati, e poco più.
Salatissimo il prezzo pagato, per quanto sia difficile fare un conto esatto delle perdite sofferte dall’Armata Russa. In quello che ormai è diventato, per la Russia, il conflitto più grave dall’epoca della Seconda Guerra mondiale, secondo Kiev le perdite subite sarebbero oltre 45.000, un numero enorme (si pensi che nei 10 anni di invasione afgana le perdite furono circa 26.000). Diverse le stime secondo i servizi segreti Usa, secondo cui i soldati russi deceduti non supererebbero i 15.000, mentre per quelli britannici potrebbero essere 20.000.
Sul fronte opposto, si parla di circa 9.000 soldati deceduti, a cui, però, si devono aggiungere circa 5.000 morti tra i civili, con più di 6.000 feriti.
Ben diversi i costi economici. Il PIL ucraino è caduto di circa il 45%, con danni ad oggi stimati in $ 500 MD, una cifra immensa per la modesta (già in condizioni normali) economia del Paese. Ancor più grave la crisi umanitaria: circa 1/3 della popolazione (complessivamente pari a 44ML di abitanti) ha dovuto lasciare le proprie abitazioni o la propria città, e ben 6,6ML hanno cercato riparo in altri Paesi.
La Russia, invece, per quanto “sanzionata” dal resto del mondo quasi nella sua totalità, tutto sommato “regge il colpo”: il PIL, che secondo alcune stime sarebbe dovuto scendere del 10% appunto a causa delle sanzioni, vede, al momento, ridursi la propria economia del 6%, con un probabile incremento al 7,5%. La motivazione è piuttosto semplice e a tutti ormai nota: il sostanziale “controllo” dell’offerta energetica, soprattutto di gas, verso i Paesi europei ha portato ad un poderoso aumento dei prezzi (decuplicato quello del gas) nonostante il vistoso calo delle forniture, dovute in gran parte alla riduzione della domanda (anche se proprio in questi giorni l’export di petrolio è tornato sui livelli di aprile, con circa 3,41 ml di barili giorno). A questo si aggiunge una rivalutazione del rublo di oltre il 30%, dopo che nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della guerra era arrivato a perdere più del 50% del proprio valore (va detto però che si tratta di un valore assolutamente artificiale, vista l’impossibilità di scambiarlo a causa dei blocchi imposti dalle restrizioni e dello stop alle importazioni).
Ma a pagare il prezzo maggiore (da un punto di vista economico-finanziario), come ogni giorno possiamo verificare, è l’economia europea. Superfluo (oltre che ripetitivo) ricordare i tanti motivi di preoccupazione. Uno per tutto può essere sufficiente: in un articolo pubblicato proprio oggi da Il Sole 24ore si certifica che, per rimanere al nostro Paese, le imprese hanno aumentato, nei primi 7 mesi dell’anno, a causa dell’aumento delle bollette, la Cassa integrazione di oltre il 45%. Senza provvedimenti oramai urgenti (blocco dei prezzi dell’energia) il rischio che si passi dalla Cassa integrazione ai licenziamenti diventa ogni giorno più probabile, interessando un po’ tutti i settori e non solo quello in cui operano le cosi dette “aziende energivore”.
Ieri giornata di assestamento sui mercati, con il Nasdaq in sostanziale parità (- 0,07%) e il Dow Jones in flessione più marcata (– 0,47%). Deboli questa mattina i listini asiatici: Nikkei – 0,49%, Hong Kong – 1,31%, Shanghai – 1,82%.
A proposito di listini (e di società quotate), Janus Henderson ci dice che le 1.200 principali società quotate al mondo, raggruppate nel suo Global Dividend Index, hanno distribuito, nel 2° trimestre dell’anno, oltre $ 544,8 MD di dividendi, stabilendo, con un aumento dell’11,78% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, un nuovo record (e se non ci fosse stato l’apprezzamento del $ si sarebbe toccato il + 19%). Ben il 94% delle società hanno aumentato (o confermato) la distribuzione di dividendi. Le previsioni sono per un aumento anche per l’intero 2022, con un importo che potrebbe toccare i $ 1.560 MD, superando la precedente stima di $ 1.540 MD. Addirittura clamoroso il dato relativo al nostro Paese, per quanto, oramai, il nostro listino non superi il 3% della capitalizzazione mondiale: gli utili distribuiti sono aumentati, rispetto al 2021, del 72% (in totale € 8,5MD), con una fortissima componente derivata dai dividendi del settore bancario, ritornato ad una sostanziale “normalizzazione”.
Futures al momento marginalmente negativi su tutte le piazze, con cali non superiori allo 0,20%.
Il petrolio si conferma sui prezzi (in salita) di ieri, con il WTI a $ 93,87.
Gas naturale Usa tornato verso i 9$ (9,306) dopo la “puntata” ai $ 10.
In ribasso, seppur di poco, anche il gas europeo, con il megawattora che, ad Amsterdam, ha fatto registrare € 265, lontano dal massimo di € 297 toccato lunedì.
Oro a $ 1.748,90.
Spread sempre ai massimi di periodo (234 bp), con il BTP che non lascia area 3,60%.
Treasury Usa che torna sopra il 3% (3,04%).
€/$ sempre sotto la parità, anche se l’€ cerca un timido recupero (0,995).
Bitcoin a $ 21.400 (+ 1,45%).
Ps: oggi parliamo di speranza. Ieri in Ucraina, seppur a porte chiuse, è iniziato (o meglio, è ripreso) il Campionato di calcio (Premier League Ucraina), anche se qualche squadra (per es, Mariupol) non c’è. Come detto, si gioca a stadi chiusi. Ma si gioca. Ancora una volta lo sport diventa simbolo di rinascita e di desiderio di normalità. Oltre che di rispetto e di fatica. E di vita.